SAN FRANCISCO «Le cose cambiano più in fretta di quanto molti si immaginano. I miei figli, per esempio, non vogliono più comprare i giocattoli. Se li vogliono stampare con la stampante 3D dopo averli disegnati sul loro computer». I venditori di giocattoli sono avvisati: chi parla ha una certa autorità quando si tratta di futuro. Chris Anderson ha 51 anni, il berretto da baseball, la felpa col cappuccio e in mano tiene un aeromodellino: «In realtà è un drone». Li fa la sua startup. Ha appena parlato alla Maker Faire di San Mateo, dove la concentrazione di stampanti 3D e di bambini faceva sembrare incredibilmente verosimile l’ ultima profezia dell’ uomo che è diventato celebre nel 2004 per aver inventato la teoria della coda lunga per spiegare l’ economia al tempo del web. La Maker Faire è la grande fiera degli inventori e degli artigiani, i Makers, ovvero quelli che secondo l’ ultimo libro di Anderson saranno gli artefici della terza rivoluzione industriale. Lui ci crede così tanto da aver appena lasciato la direzione di Wired per dedicarsi totalmente alla sua nuova società, 3D Robotics, che progetta e produce droni per l’ agricoltura. Come quello che tiene in mano. E quindi Anderson davvero crede che la prossima novità in arrivo dalla Silicon Valley saranno i Farmer Drones, i contadini droni? «Ogni volta che qualcuno mi chiede quale sarà the next big thing io rispondo che detesto l’ idea che ci debba essere solo una grande cosa in arrivo. Ce ne saranno moltissime, basta guardarsi attorno alla Maker Faire per capirlo. Ma se devo indicare un settore, allora la risposta per me è la Robotica. Ci credo al punto da averci fatto una azienda con una fabbrica in New Mexico». Come va la 3D Robotics? «Abbiamo avuto un investimento di 5 milioni di dollari, il fatturato è arrivato a 10 milioni ma io punto al miliardo di miliardo di dollari. Del resto tutti in Silicon Valley sperano di diventare la prossima Facebook o Google: anche io». Pensa di farlo con i robot? «Quando io parlo di robot non intendo il fatto che avremo robot per le strade. Questa idea della robotica è sorpassata. Se restiamo a quello che dicono i vocabolari, già oggi viviamo in una società robotizzata. Solo che quando un robot funziona davvero non lo chiamiamo più robot. Lo chiamiamo per quello che fa. E quindi la lavatrice è un robot. La macchina del caffè anche. Lo stesso accade quando un termostato diventa intelligente non lo chiamiamo Internet delle cose: lo chiamiamo termostato. E quando il navigatore ci indica la strada in auto non lo chiamiamo intelligenza artificiale. A volte abbiamo un problema di parole, di marketing delle idee: serve qualcuno che prenda delle idee e le impacchetti in modo che tutti possano capirle». È quello che lei ha appena fatto con i Makers: in fondo inventori, artigiani e hobbisti del faida-tee smanettoni sono sempre esistiti. «Esatto. Quando Dale Dougherty nel 2005 lanciò la rivista Make e poco dopo fece la prima Faire ha messo assieme tante esperienze che già c’ erano: ma questa semplice operazione ha reso evidente e comprensibile il tutto». È ormai qualche anno che si parla del fenomeno dei makers: è davvero una rivoluzione e non soltanto una evoluzione di cose esistenti o peggio una illusione pensare che possano cambiare il modo in cui vengono prodotte le cose? «Il sottotitolo del mio libro dice “rivoluzione” e quindi temo di non avere scelta… Scherzi a parte. Io penso che questo fenomeno sia più grande del web. Perché usa il web come infrastruttura, il modello di innovazione aperta viene dalla rete, ma riguarda un mondo molto più grande. Il web è digitale, il web è fatto di bits. È contenuto e relazioni. Il movimento dei maker riguarda il mondo fisico attorno a noi. Abbiamo già visto quanto potente è stato l’ arrivo del web che nonè rivoluzionario in sé ma per le relazioni sociali che consente. Ecco se noi prendiamo questa lezione del connettere, del mettere in relazione tutti e in ogni luogo per cambiare il mondo, e lo applichiamo a quello che c’ è attorno a noi, come fa questa cosa a non essere più grande del web?». La prossima star della Silicon Valley sarà una startup che viene dal mondo dei maker? Che è nata alla Maker Faire? «Io misuro il successo delle aziende dalle dimensioni che hanno. E quindi alla domanda quanto è davvero grande il mondo dei makers da un punto di vista economico, la risposta è: cinque anni fa era una società da un milione. Tre anni fa da 10 milioni. Ora da 100 milioni. L’ anno prossimo sarà da un miliardo. Ecco come sta crescendo il mondo dei makers, a questi ritmi. Se poi il punto è: una società di makers riuscirà un giorno a diventare più grande di Apple? Non lo so ma è molto interessante osservare che l’ orologio che ho al polso, lo smartwatch Pebble, è venuto fuori da Kickstarter, è stato il più grande progetto finanziato attraverso la rete, ed è un progetto che viene dal movimento dei makers. E oggi Apple ritiene che la prossima categoria di prodotti su cui puntare saranno smartwatch come questo. È un buon segno no?». Il web ha creato moltissimi posti di lavoro ma ne ha anche bruciati tanti in settori obsoleti che sono stati ridisegnati totalmente, penso ai media. Chi sono le vittime di questa imminente distruptive innovation, innovazione distruttiva? Secondo l’ ultimo libro di Jaron Lanier, la classe media rischia di sparire. (Anderson disegna su un foglio una curva gaussiana e sotto ne fa una rovesciata: la prima assomiglia a una collina, la seconda a un lago) «Sì, certo, anche io sono preoccupato per la classe media. La distribuzione del reddito si sta rovesciando. E prima ce ne rendiamo conto meglioè se non vogliamo finire qui sotto. Provo a fare degli esempi. Se hai una laurea in informatica puoi davvero diventare ricco, le opportunità di successo per te non sono mai state così grandi. Se invece non hai fatto l’ università, beh probabilmente non c’ è modo che tu possa crescere e stare meglio. In mezzo alla curva c’ è il lavoro a tempo indeterminato, nel settore manifatturiero ma non solo. Questo è destinato a sparire. Infine, sull’ altra estremità, ci sono i poveri di oggi che sono l’ equivalente dei ricchi di ieri per certi versi. Voglio dire che in tanti ormai hanno aria condizionata, televisione, telefonino, macchine. Essere poveri in questo modo è relativo. Questo è quello che ci aspetta:e se qualcuno ancora spera di lavorare distrattamente dalle 9 alle 5 e stare con i figli a vita, potrebbe trovarsi nei guai». Dopo gli anni all’ Economist e la direzione di Wired, ha chiuso con il giornalismo? «Io non sono mai stato un giornalista, ero un direttore: c’ è una grande differenza. I media sono stati un ottimo strumento per trasmettere delle idee. Ma ci sono tanti altri modi per trasmettere idee, uno di questi è fare una startup e farla crescere. Tre anni fa non avrei mai immaginato di poter costruire una fabbrica in New Mexico». Torniamo ai suoi robot: su quali scommette esattamente? «La mia società si chiama 3D Robotics, la terza dimensione è l’ altezza e quindi robot volanti. I droni. Ecco, sì, i droni saranno the next big thing. Non quelli militari naturalmente, ma quelli per scopi civili. In particolare per l’ agricoltura. Droni contadini». Perché questa cosa dovrebbe diventare così importante? «Perché l’ agricoltura è la più importante industria nel mondo. E perché i big data sono la più importante industria nel settore tecnologico. Se unisci i big data all’ agricoltura hai la risposta. Immagina un piccolo aereomodellino da poche centinaia di euro che tutte le mattine sorvola i campi silenziosamente e li fotografa con un dettaglio mai visto prima e consente di sapere davvero come vanno le cose, se ci sono problemi, malattie delle piante, infiltrazioni d’ acqua. Risolvere quei problemi vuol dire migliorare immensamente il raccolto. E per risolverli devi conoscerli. Ora è possibile. Per una nuova società come la mia è una opportunità da un miliardo di dollari appunto. Per il pianeta vuol dire avere più cibo e meno pesticidi: un mondo decisamente migliore»