Una delle certezze dei fisici è la velocità della luce nel vuoto, pari a quasi 300.000 chilometri al secondo. Deve essere stata una grande soddisfazione, quindi, quella provata da un gruppo di ricercatori, tra i quali gli italiani Daniel Giovannini, dell’Università di Glasgow, e Daniele Faccio, della Heriot-Watt University, che hanno mostrato che questo può non essere vero, a patto di modificare la struttura spaziale di un raggio di luce e di considerare la velocità di gruppo di un fascio di radiazione elettromagnetica.
Che sia chiaro sin da subito, l’esperimento di Giovannini, Faccio e colleghi, pubblicato su “Science”, non abbatte nessuna certezza della fisica. La velocità della luce nel vuoto rimane sempre quella, indicata convenzionalmente con la lettera c, per esempio nella famosa equazione di Albert Einstein che collega massa ed energia. Gli scienziati hanno dimostrato però che se si altera la dimensione trasversale di un fascio di luce che viaggia nel vuoto, allora la sua cosiddetta velocità di gruppo, ovvero la velocità con cui si propagano nello spazio le variazioni nella forma dell’ampiezza dell’onda elettromagnetica, può diventare inferiore a c.
Nell’esperimento, grazie ad appositi filtri a cristalli liquidi i ricercatori hanno modificato la struttura spaziale di due differenti fasci, caratterizzandoli con diverse modalità di propagazione nello spazio. I fotoni di ciascun gruppo, nella lunghezza d’onda dell’ultravioletto, sono stati fatti partire nello stesso momento rispetto a fotoni di un terzo gruppo di controllo, la cui struttura non veniva modificata. Come risultato, gli scienziati hanno registrato un ritardo di circa lo 0,001 per cento dei fotoni di entrambi i gruppi la cui struttura spaziale era stata modificata rispetto al momento di arrivo dei fotoni del gruppo non modificato. In breve, i fotoni modificati arrivavano leggermente dopo rispetto a quelli che non avevano sperimentato un cambio di struttura, un ritardo che è equivalente a parecchi micrometri su una distanza di propagazione dell’ordine di un metro.
Alla fine dello studio però, i ricercatori hanno tenuto a precisare che: “La nostra misurazione di velocità di gruppo è strettamente una misurazione della differenza nella velocità di propagazione tra fotone di riferimento e fotone strutturato spazialmente. Non è stata fatta nessuna misurazione diretta della velocità della luce. Con questo manoscritto, la velocità che misuriamo è strettamente la velocità di gruppo dei fotoni.”
Chiarezza e prudenza sono mai troppe, quando si ha a che fare con pilastri dell’universo. E questo è uno di quei casi.
Il cervello comunica con due alfabeti diversi
Una perfetta mescolanza di frequenza e scansione temporale degli impulsi elettrici costituisce “l’alfabeto” usato dai ciruiti cerebrali per scambiarsi le informazioni. La scoperta è di ricercatori della Scuola internazionale superiore di studi avanzati (SISSA) di Trieste e delI’Istituto italiano di tecnologia (IIT) a Rovereto, che firmano un articolo su “Current Biology”.
La risposta di un neurone a uno stimolo sensoriale è una scarica elettrica composta da sequenze di impulsi. Finora si riteneva che l’informazione trasmessa da un neurone all’altro fosse codificata dal numero totale dei picchi d’intensità (frequenza) nelle sequenze: a un certo numero di picchi corrisponde una certa “lettera dell’alfabeto” che i neuroni usano per comunicare fra loro.
Dall’esame dei risultati di una serie di esperimenti sui ratti, Stefano Panzeri, Mathew E. Diamond e colleghi hanno ora scoperto che a questo sistema di codifica se ne sovrappone un altro. I neuroni comunicano, cioè, usando anche un secondo “alfabeto”, le cui lettere sono rappresentate da variazioni nella distribuzione temporale con cui si susseguono i picchi all’interno di ciascuna sequenza di impulsi.
Non solo: il “peso” di questa codifica basata sulla temporizzazione dei picchi è spesso superiore a quello della codifica a frequenza, dato che la distribuzione temporale degli impulsi varia nell’arco di pochi millisecondi e può trasportare un numero maggiore di “bit di informazione” rispetto alla codifica basata sulla frequenza, che varia su un arco di tempo più lungo, nell’ordine delle decine di millisecondi.
Di fatto, osservano gli autori, l’esistenza di due sistemi di codifica crea canali multipli sulla stessa linea di trasmissione. “Se prendiamo per esempio la sensazione tattile, il cervello utilizza questi canali multipli per comunicare aspetti dello stimolo – intensità del tocco, grana della superficie, forma dell’oggetto e via dicendo – che non potrebbero essere comunicati con un singolo mezzo di informazione” ha detto Panzeri.
“Grazie a questa scoperta – ha concluso Panzeri – sappiamo meglio come imitare il linguaggio del cervello, e quindi riprodurlo. Possiamo, quindi, pensare di sviluppare protesi robotiche, come arti per amputati, in grado di comunicare con il cervello in modo bidirezionale e complesso, così da permettere non solo un ripristino delle capacità motorie, ma anche dei sensi, come per esempio il tatto”.