ALL’INIZIO del Novecento un cavallo pitagorico mise in crisi i dotti, gli specialisti e soprattutto gli
alfieri della psicologia sperimentale, che aveva mosso i primi passi. Hans, detto Clever Hans, il
furbone, sapeva far di conto, riconoscere i colori, comporre parole sensate battendo con lo zoccolo
su una tastiera, rispondere a domande neppure troppo semplici. Sembrava proprio uno di quei
loquaci destrieri dei poemi epici, è stato l’antesignano e forse l’ispiratore dei film della serie
Francis, il mulo parlante; anzi nella fattispecie gli mancava solo la parola. Per il resto, pareva dotato
di una intelligenza autonoma e creativa, proprio come un umano. E dato che allora – come ora spiritismo,
parapsicologia, dottrine orientali variamente reinterpretate, magie e stregonerie
godevano di un buon successo, la sua storia mandò in visibilio i giornali, i circoli intellettuali e i
buoni borghesi della Belle Epoque, già estasiati da cani che sapevano giocare a domino, maiali in
grado di far di conto, medium, guru e maghi. Fu presa molto sul serio anche da uno stimato
ricercatore, che ne venne a capo con una spiegazione altamente razionale. E da allora Hans, il
cavallo sapiente di Berlino, compare in tutti i manuali di psicologia, magari per poche righe, come
una sorta di ammonizione. Che dice: state attenti a non ripetere quel celebre errore. Ovvero state
attenti all’influenza inavvertita che nei colloqui e negli esperimenti chi interroga ha sull’interrogato.
Il problema è molto vasto, perché interessa sicuramente anche coloro che conducono sondaggi
d’opinione, o chi esamina un candidato per un lavoro o per un esame, per non parlare dei rapporti tra
i sessi. Vasto, e attuale. Tanto che una studiosa belga, Vinciane Despret (insegna filosofia della
psicologia a Liegi e etologia delle società animali a Bruxelles) ha deciso di riesaminarla a fondo,
quella vecchia storia, raccontandola in un libro uscito per l’editrice Elèuthera (Hans, il
cavallo che sapeva contare) con una divertente postfazione di Giorgio Celli.
Divertente – e vagamente inquietante – è però tutta la vicenda, a metà strada tra un romanzo
mitteleuropeo e una fantasia alla Queneau. Hans forse non sapeva contare, ma a distanza di
cent’anni sono proprio i conti che, alla fin fine, non tornano completamente. Tutto cominciò il 7
luglio 1904, quando un giornale, il Welspiegel, dette l’annuncio che un ex professore di matematica
in un liceo di Berlino, il signor Wilhelm van Osten, era riuscito a insegnare al suo cavallo – con
metodi tradizionali, più o meno come faceva con i suoi alunni – non solo le operazioni più semplici,
ma anche a estrarre radici quadrate e identificare i fattori primi di un numero; oltre che a riconoscere
le note musicali e trovare le dissonanze in una melodia, individuare persone precedentemente
mostrategli in fotografia, fare segni di affermazione o diniego con la testa, distinguere i colori.
Subito nel cortile di casa sua, dove Hans veniva fatto esibire, si assieparono folle debordanti. Il
clamore e le polemiche furono tali che l’ex professore chiese una perizia al Consiglio per
l’educazione di Berlino, che nominò una commissione. I risultati furono straordinari: il cavallo
rispondeva alle domande battendo lo zoccolo, risolveva problemi, insomma comunicava benissimo
con gli umani, giungendo fino a correggere qualche loro lapsus, senza che si riuscissero a scoprire
inganni illusionistici o trucchi di addestramento. Solo una nuova tornata di esperimenti, condotti
dallo psicologo Oskar Pfungst, sarebbe riuscita infine a proporre un’interpretazione del fenomeno,
che è quella largamente accettata anche oggi. Usando strumenti di precisione e conducendo le prove
in modo molto rigoroso, Pfungst scoprì infatti che Clever Hans era solo molto, molto attento, e
usava benissimo la vista, comportamento peraltro inusuale nei cavalli: le sue risposte erano
«guidate» da movimenti impercettibili e involontari, prodotti dalla concentrazione, dalla tensione o
anche normalmente dall’espressione di chi lo interrogava. Lo dimostrò in un libro divenuto celebre,
con l’ovvio apparato di tavole, elenchi di risultati, comparazione. E per buona misura replicò gli
stessi esperimenti, mettendosi lui al posto del cavallo, facendosi rivolgere domande di cui non
conosceva la risposta, e trovandola ogni volta grazie all’osservazione molto attenta di chi lo
interrogava. Tutto a posto, dunque? «Clever Pfungst» ha spiegato Clever Hans? Forse sì, forse no,
risponde a distanza di un secolo la studiosa belga. Perché ormai sappiamo che sì, l’interrogante
modifica e influenza l’interrogato, ma proprio per questo non siamo in grado di dire come fosse
veramente la situazione dell’interrogato prima che appunto venisse modificata. E poi, siamo sicuri
che molti movimenti involontari non li abbia «insegnati» Hans ai suoi esaminatori? Che l’esaminato
non abbia a sua volta influenzato gli esaminatori? La faccenda si complica terribilmente, e diventa
molto «tecnica». Quel che è certo, è che il cavallo alla fine degli esperimenti andò un po’ in crisi,
non era più il bel cervellone di prima, era diventato molto meccanico nelle sue risposte. Come tutte
le star mediatiche conobbe un periodo di oscuramento, venne persino venduto da Van Osten, che si
sentiva deluso. Triste fine? Niente affatto. Lontano dal clamore, con un nuovo proprietario,
sappiamo dalla Despret che riprese a esibirsi con ottimo successo, e non da solo. Insieme con lui, a
fargli da spalla, comparvero altri due destrieri, Mohammed e Zarif. Uno specializzato in aritmetica,
l’altro nel comporre parole. Nel tentativo di smentire lo psicologo, pare che riuscirono a rispondere
correttamente anche al buio. Pitagorici, sapienti, e un po’ burloni.